“E non capire mai cos’è, se c’è stato per davvero
quell’attimo di eterno che non c’è…“
«Non mi ami abbastanza, anzi forse non mi ami proprio. Non mi hai mai amato. Perché sei un egoista! E allora io mi sono stancata: ti lascio. Ti lascio perché non possiamo andare avanti così. Mi ricordi il mio ex! Anzi, tu sei peggio del mio ex! Perché lui faceva un sacco di cagate, è vero, mi ha tradito più volte, era un campione nel negare l’evidenza, diceva che la colpa era sempre degli altri, non si è mai preso una responsabilità, però a me quella tensione piaceva, quell’insicurezza del chissà se riusciremo a costruirci un futuro insieme, quella perenne mancanza di fiducia a me mi faceva sentire viva. Invece con te è tutto piatto, litighiamo poco… E quando le cose sembrano andare bene sicuramente mi nascondi qualcosa. Anche le mie amiche me l’hanno detto che non mi posso fidare. Qua rischiamo veramente di costruire qualcosa di stabile e duraturo e io se fai così, non sono pronta. Allora ti lascio e me ne vado. Anzi, che dico: vattene tu! Questa è casa mia!»
Il giorno dopo:
«Ehi, pronto, ciao. Volevo dirti che non si fa così. Te ne sei andato veramente?! Cioè, io ti dico vattene e tu te ne vai? Ma che modo di comportarsi è? Ah, hai rispettato la mia scelta. Ma io non… Non volevo dirti tutte quelle cose. Non ti interessa più? Mi devo prendere la responsabilità delle mie azioni? Ma guarda che era solo una prova d’amore quella che volevo. Se mi amassi sul serio, infatti, torneresti qui.. Ma non è vero che va avanti da due anni sta sceneggiata! Ah, e quindi adesso mi lasci da sola in questa casa piena di cose che mi parlano di te. Mi toccherà uscire con le mie amiche per non restare qui dentro tutto il giorno, che poi in realtà sono più delle conoscenti… Vabbè sì, è vero, è vero, mi stanno sulle palle e le loro relazioni fanno tutte schifo, però tu avresti dovuto capire! Io quando ti dico vai in realtà ti sto dicendo resta, quando è no in realtà è sì. Ah, quindi non torni. Hai preso la tua decisione. Allora avevo ragione a credere che non mi ami abbastanza.»
Qualche mese dopo:
«Era l’uomo della mia vita. Mi amava davvero e l’ho perso. Che periodo di merda, è pure tornato a farsi sentire quel coglione del mio ex. E se passo un’altra sera con quel gruppo di galline mi ritiro in clausura. Non sanno manco decidere dove andare a cena! Mi presentano tipi orrendi, mi fanno sentire ancora più sola.
Ormai non credo più all’amore. L’amore fa schifo.»
“Ti presento un vecchio amico mio: il ricordo di me per sempre e per tutto quanto il tempo; in quest’addio… io m’innamorerò di te.”
A Natale bisognerebbe avere dei nemici. Nemici veri, eh! Di quelli che proprio ti tirano i matrimoni di schiaffi dalle mani o che non vedi l’ora di incontrare per strada solo per cambiare appositamente marciapiede. Si vabbè, “a Natale siamo tutti più buoni”, “o è Natale tutti i giorni o non è Natale mai”, ma io mai come in queste occasioni sento il bisogno di loro. E soffro, perché non ho mai coltivato nemicizie sincere, ma solo qualche inimicizia di sfuggita, a breve termine.
Avere dei nemici dovrebbe essere fonte di risparmio, penserebbe qualcuno: più ne hai, meno regali fai e più soldi risparmi. E invece no! C’è un sacco di bruttezza nel mondo che chiede espressamente di essere impacchettata e messa sotto l’albero. E’ di sicuro più piacevole fare regali di alto spessore estetico-affettivo a persone speciali per la nostra vita, ma vuoi mettere la soddisfazione di regalare un pensiero orrendo a chi per tutto l’anno ci ha massacrato l’ulcera e fatto il fegato quanto un sommergibile?
Certo, non bisogna esagerare. Anche i nemici meritano rispetto, educazione e cortesia. E non si può correre il rischio di sbagliare. Fare un regalo volutamente brutto è un’Arte. Il messaggio subliminale deve risultare chiaro, sottile ma efficace. E poi, si sa, la vendetta è un libro di Bruno Vespa che va servito freddo.
La mia frase di rito, osservando il trash che la globalizzazione ci propina quotidianamente è: non lo regalerei nemmeno al mio peggior nemico, ma forse la ripeto a mo’ di mantra da anni solo perché non ho uno che meriti così tanta stima o perché tra Yoga e Azione Cattolica sono campionessa olimpica di pace nel mondo o perché preferisco che la cirrosi mi venga grazie al Primitivo di Manduria. Ma se potessi per una volta dedicare del sincero cattivo gusto a qualcuno, senza alcun’ombra di dubbio, la mia classifica di regali #demmè 2013 sarebbe la seguente:
– La trilogia di Paolo Brosio (Profumo di lavanda, A un passo dal baratro, Viaggio a Medjugorje). Tutti insieme in un colpo solo. Una carneficina.
– Il vinile di Paolo Mengoli. La nostalgia è sempre dietro l’angolo.
– L’abbonamento annuale alla rivista Italia Imballaggio. Ma anche Materie plastiche ed elastomeri mi sembra abbastanza malvagia.
– Un bel set sciarpa/cappello/guanti color prugna secca con paiettes fucsia e stampa di Betty Boop con su scritto “Sexy baby”. Che ti dovrebbero dare i soldi per indossarlo. E invece.
– Un pass backstage per il Capodanno in Piazza a Rimini con Carlo Conti, Orietta Berti e Pupo. Perché l’anno nuovo non può iniziare senza “In via dei Ciclamini, al centoventitré”.
– Un weekend benessere per una persona a San Martino in Pensilis.
– Un buono ITunes per scaricare gratuitamente il nuovo album di Gigi d’Alessio.
– Il cuscino con la fotografia, il portachiavi con la fotografia, una tazza con la fotografia, il puzzle di una fotografia e una cornice. Senza fotografia.
– Iscrizione al Torneo Nazionale di Tombola.
– Una cena con Sandro Bondi. (Bus de cùl!)
– Una trousse di Pupa. Che presa a male. Belle da vedere, eh. Per carità! Ma inutili quanto una zucca a Pasqua. Passano rapidamente dal bagno alla camera da letto, tra le bomboniere dei 18 anni. Io al posto della coccarda, aggiungerei direttamente un centrino.
– Il piumino leopardato dell’Alcott, esposto in questi giorni con nonchalance in vetrina, per provocare suicidi di massa tra i passanti di Corso Cavour. (Volendo risolvere anche il marrone della calza della Befana, Tezenis ci fa sognare così.)
– Canzoni per la vita, il nuovo album di Al Bano con la preziosa collaborazione di Massimo Ferrarese. Musica e politica: connubio perfetto, come ci ha insegnato Apicella.
A queste proposte cattivissime, aggiungerei i tre regali sempre sul pezzo, quelli che – ammettiamolo – nessuno vuole o si aspetta di ricevere, visto l’elevato tasso di ovvietà, eppure se li ritrova puntualmente in casa ogni anno. Insomma, l’ultima frontiera dell’innovazione:
– Il calendario di Frate Indovino. Uno di quegli oggetti che a casa mia si appende da solo al muro. Ha vita autonoma, non si sa come è arrivato in cucina e il 31 dicembre scende dal chiodino e finisce nel bidone della carta, senza fare troppe storie.
– La Stella di Natale, già visibilmente moribonda. Mia madre, che con un basco in testa potrebbe condurre Lineaverde con Luca Sardella, ogni anno lotta contro il suo disincanto per farle sopravvivere, poi finge di non volerne sapere, “che quest’anno non la compriamo tanto non dura” e poi la ritrovi la mattina di Natale a fare flebo alla pianta. Con tutte le migliori intenzioni, morirà a Santo Stefano.
– Il Panettone (in tutte le sue varianti). Regalo sicuro. Percentuale di fallibilità concentrata nei canditi. Colazione assicurata fino ad Agosto.
Adesso domande esistenziali e sensi di colpa staranno già stappando lo spumante nella vostra testa al ritmo di Disco Samba. Fermate tutta ‘sta baldoria subito, spegnete le stelle filanti! Non iniziate a pensare a tutti i regali brutti che negli anni avete collezionato e/o fatto, seppur in buona fede. Non preoccupatevi, io da dodici anni sto metabolizzando ancora un cappello rosso con i capelli biondi finti che mia zia decise di regalarmi per il mio “carattere creativo e spiritoso”, convinta di farmi cosa gradita.
Scurdammoce ‘o passato.
Ve l’ho già detto, fare un regalo brutto è un’Arte. In alcuni casi può risultare anche molto facile: basta ricordarsi che è tempo di acquisti il 24 dicembre alle sei di pomeriggio.
Qui si parla però di malvagità studiata a tavolino, di ore di shopping passate sospirando con una certa frequenza un dolce e flebile: ma è ‘na mmerda!, di cose brutte davvero.
Bisogna essere pronti, motivati e malvagi, appunto.
E poi sta la crisi, oh. Io proprio non me la sento di finanziare A qualcuno piace Cracco o Sale, zucchero e caffè.
Dunque, questo Natale torniamo a far girare l’economia e la tenerezza nel verso giusto.
Abbracciamoci come se non ci fosse un domani, stringiamoci più forte ancora, teniamoci vicino al cuore.
E soprattutto, non cediamo alla tentazione della confezione raspa e bagnodoccia al Pan di Zenzero di Bottega Verde.
Sei uno studente universitario che, in preda alla sessione estiva, soffre di allucinazioni, vede il mare anche in fila al supermercato e, a mollo sui libri, posticipa tutte le avventure balneari nel fine settimana, perché nel weekend anche i professori te lo concedono un po’ di sole, tanto comunque i libri te li porti appresso perché, secondo un processo osmotico, le nozioni entrano in testa anche se li lasci chiusi ad essiccare insieme alle infradito, MA (ndr. pausa respiro) il venerdì sera a mezzanotte, mentre Cenerentola va a dormire, sopraggiunge una nuvola tendente al grigio scuro a rovinare tutti i piani?
Allora questo post è anche per te.
Studi scientifici hanno dimostrato che il 97.2% (ndr. numeri a caso) degli studenti a Giugno può sperare solo nella tintarella color latte. E non serve farsi amico il Colonnello Vitantonio Laricchia per sapere che le temperature si abbasseranno proprio quando tu avrai intenzione di dedicarti una giornata di puro relax. L’obiettivo è dunque, per scaramanzia, non pensare mai a quel momento di alegresa e fregare il cielo, presentandosi in spiaggia alle cinque di pomeriggio di un martedì a caso, dicendo a tutti “mò vengo, vado a buttare l’inorganico e torno”?
Vitantonio Laricchia e le sue raccomandazioni.
No.
Come un tormentone da cantare togliendo i semini all’anguria, arriva il vero lavoro anti-depressione cronica e pro-vita sociale dell’estate 2013: il pioggia-reporter.
Il profilo professionale del pioggia-reporter prevede:
– innato ottimismo;
– grande abilità nell’accostare le parole “bagnato” e “fortunato” e nel dire frasi di repertorio come “Sono solo due gocce!”, “Che apri a fare l’ombrello?! Mo smette!” o “Almeno si rinfresca l’aria!”, senza rischiare il linciaggio;
– disinvoltura e spirito di adattamento;
– aver vinto almeno un’olimpiade di Problem Solving;
– scarpe comode, resistenti, possibilmente chiuse;
– una felpa con cappuccio sempre nella borsa, non solo perché può venire a piovere, ma perché a una certa, come dice Frank Sinatra, “straengg’ in the night” (ndr. traduzione letterale per gli amici anglosassoni: stringe, fa freddo durante la notte); – borsa plastificata o abbastanza impermeabile;
– ombrello da battaglia (credo che sulla Terra siamo rimasti in tre ad avere lo stesso ombrello, ancora sano e perfettamente efficiente, da più di due anni.)
Il profilo professionale del pioggia-reporter NON prevede:
– messe in piega appena sfornate dal parrucchiere;
– meteoropatia;
– per le donne: gonne alla Rossella O’Hara, shopper in cotone e zatteroni per andare sulla Luna;
– per l’uomo: pantaloni col risvolto e mocassini. (Un consiglio: non li mettete nemmeno quando c’è il sole che spacca le pietre.
Grazie,
un ormone femminile.)
Ma entriamo nel dettaglio. In cosa consiste il lavoro di pioggia-reporter?
Semplice. Il pioggia-reporter, famoso per la sua spiccata gioia di vivere a tutte le ore del giorno e della notte, viene svegliato il sabato mattina da una sinfonia di tuoni e lampi. Audace e coraggioso come sempre, si avvicina alla prima finestra utile per osservare il tumulto del cielo e subito un pensiero lo coglie: ma che bbbella giornata estiva! (lo ripeterà più volte durante il giorno, per autoconvincersi che è tutto nella norma.)
Il pioggia-reporter lo riconosci subito: è l’unico che resta vestito in versione Miami Beach, mentre tutti alla prima goccia hanno tirato fuori dagli scatoloni invernali i colbacchi. Un vero temerario! Il pioggia-reporter non pubblica mai stati o canzoni su Facebook sul brutto tempo, si veste a cipolla tutto l’anno per gestire gli sbalzi termici e ha il richiamo climatico nelle ginocchia.
Frankenstein Junior docet.
Anch’io sono diventata una pioggia-reporter. Dovevo prevederlo vista la quantità di eventi a cui partecipo, nonostante la pioggia. Alle superiori c’era una mia amica, che per discrezione chiameremo Francesca, che non usciva mai la sera se c’era cattivo tempo. Non ho mai capito questa sua presa di posizione e mi sono spesso affannata per spiegarle il mio disappunto, ma lei è rimasta sempre impassibile. Tutti gli organizzatori culturali temono un pubblico come Francesca. Io invece, dopo aver temprato il mio coraggio due anni fa, durante l’indimenticabile notte della Gmg a Cuatro Vientos (una testimonianza: qui) ho capito che niente mi può più fermare. Anche perché, se piove, cosa potrebbe esserci di peggio?
Il mio primo reportage da iscritta all’Albo dei PR riguarda sabato 29 giugno: una giornata che ricorderemo per l’onomastico del mio Babbo, per la precoce morte di Margherita Hack (perché, nonostante i 91 anni, per me altri trent’anni li avrebbe tirati benissimo) e per, guarda un po’, la pioggia.
Con il mio impeccabile estro creativo (e la cataratta giovanile), ho realizzato questa bellissima vignetta che subito vi guiderà nel magico mondo della mia demenza senile:
Aspettative del venerdì vs. Atroce realtà del sabato.
Dunque, dopo aver passato una settimana di incredibili sforzi universitari, quali: scegliere posti silenziosi per studiare e addirittura andarci, non contare le pagine che mancano alla fine del capitolo, capire le definizioni appena lette, spegnere ogni genere di dispositivo che ti collega con Facebook, non soffermarsi su ogni asino che vola e fare un esame, mi ero organizzata con una mia amica, che sempre per discrezione chiameremo Francesca, per andare insieme al concerto di Daniele Silvestri, previsto il 29 giugno a Torre Regina Giovanna (Br). Lei avrebbe offerto una mezza piazza del suo letto per la notte e io a questo giro tantissima allegria. Sabato, avendo anche le prove del prossimo spettacolo teatrale, un compagno di giochi, che (ormai lo sapete) per discrezione chiameremo Francesco, ha proposto un post-lezione al mare. Quanta felicità per una studentessa bianca come il latte, castana come le mele cotogne marce!
Ma il cattivo tempo non guarda in faccia nessuno e la nuvola di Fantozzi si è presentata di soppiatto già dal venerdì pomeriggio.
Problema dei problemi: come si veste una pioggia-reporter alle prime armi, alle prese con l’inverno a giugno?
Opto per un abbigliamento in stile Lara Croft e affronto la pioggia a vento che si scatena nel tragitto Bari-Brindisi. Arrivata a lezione capisco che è stato molto previdente mettere un paio di leggings e la felpona salva-vita-Beghelli nello zaino. Distruggo la scenografia di Tomb Raider e mi cambio, consapevole che quei leggings diventeranno parte della mia epidermide per molte intense ore. Il diluvio decide di prendersi una pausa, ma il nostro buon senso ci porta a lasciar perdere l’ipotesi mare. Tristezza infinita. Vabe’ oh, ma stasera c’è il mega concertone di Daniele Silvestri! YEAH!!
La pioggia sembra non tornare, il concerto inizia alle 23:30 (ho capito che siamo gggiovani, però l’orario è davvero molesto) e il buon Daniele arriva un po’ mogio. Fonti certe mi raccontano che due anni prima in quel luogo era saltato l’impianto elettrico. Ma l’ottimismo ci fa stare tutti sotto al palco, pronti per cantare abbracciati stretti stretti quelle canzoni che, con abbondante colla vinilica, abbiamo legato ai nostri ricordi. Ma lui sembra non collaborare. Con la scusa della scaletta ancora provvisoria, si trasforma in un juke-box e chiede a noi pubblico se c’è qualcosa in particolare che vogliamo ascoltare. E lì si sono scatenate le ugole. Per un attimo mi è sembrato di assistere ad un Battiti Live con ospite Pasqualino di Amici.
Daniele tira fuori dal suo cilindro un po’ di pezzi datati, quando all’improvviso, gocce pesanti quanto cacche di mucca iniziano a cadere sulle nostre teste. Da buona pioggia-reporter, resto impassibile e continuo a cantare. Un po’ d’acqua, che sarà mai!
La felpa inizia a diventare pesantissima, sembriamo tutti reduci da un battesimo nel fiume Giordano. L’impianto di amplificazione si bagna, il concerto si ferma. Daniele ritorna sul palco dopo un quarto d’ora per darci l’infelice notizia: s’è rotto tutto. Decide di suonarci però, anche senza il ritorno del suono in cassa, l’ultimo suo successo sanremese. “Canto pure a bocca chiusa”, effettivamente, sembra l’unica soluzione. Poi sfida il temporale, canta Testardo e a “de li mortacci tua” saltano pure i microfoni.
Evviva.
Nell’utopico mondo delle aspettative la serata sarebbe terminata la mattina dopo. All’1:30 eravamo a casa.
Tocco di classe dell’ironia della sorte: rientrati in macchina, pronti per essere sbrinati dall’impianto di riscaldamento, la radio si diverte a cantarci Una giornata al mare, nella versione di Silvestri. Appunto.
Ecché, a prendere in gggiro proprio?
Il pigiama che non ti aspetti.
Ovviamente, per la gioia di vivere che scorre nel nostro DNA, posso dire di aver passato comunque una gran bella serata.
Ecco le cose che mi pare giusto salvare:
– dormire nel lettone con la Franci, col pigiamone pesante e le lenzuola fin sopra ai capelli;
– mi dicono dalla regia che nel sonno, ho iniziato a correre come i cani. Adesso so che il mio inconscio è molto più atletico di me;
– sono riuscita a far sentire almeno una canzone del concerto al mio amico migliore che, per discrezione chiameremo.. Luca;
– sorella mi ha chiamato dal concerto dei Muse, anche se ha beccato il momento gorgheggio “uoh aaah oohuu” di Matthew Bellamy e abbiamo passato le 48 ore successive a decifrare la canzone-dedica;
– ho conosciuto Ebby, la cagna più tttenera del pianeta.
Il giorno dopo, il mio amico giornalista-giornalista Mario, che per discrezione.. emmobbastaveramenteperò, mi ha fatto trovare questa intervista sul web. Guido Catalano a Taranto, il 29 giugno, stessa Puglia, stessa ora, scherzando gli chiede, mi chiede, si chiede, ci chiede: E perché Gabriella non è venuta?
Una pioggia-reporter in questi casi,
piuttosto che morire,
democraticamente,
s’ammazza.
Il lavoratore ha diritto ad una retribuzione proporzionata alla quantità e qualità del suo lavoro e in ogni caso sufficiente ad assicurare a sé e alla famiglia un’esistenza libera e dignitosa.
La durata massima della giornata lavorativa è stabilita dalla legge. Il lavoratore ha diritto al riposo settimanale e a ferie annuali retribuite, e non può rinunziarvi.
– Articolo 36, Costituzione Italiana
Ho sempre avuto un problema con la parola LAVORO. Mi sembra che non mi appartenga abbastanza. Eppure anch’io posso dire di aver cominciato a lavorare a 18 anni, come ricordano sempre quelli più grandi di me, vomitando le loro onorate carriere.
Ma chi ci crede?
Come lo dimostro?
Io lavoro gratis.
Per amore, per fare esperienza, per la gavetta, per poter camminare da sola, perché non l’ho deciso io, perché precariato è anche questo, perché non ti puoi lamentare, devi solo dire grazie, ché ti stanno facendo un favore.
Io lavoro gratis.
Ed ho imparato cosa significa alzarsi presto, essere puntuale, disciplinata, educata, pulita, ordinata, non essere individualista, saper lavorare in squadra, evitare di stare sui social network se non per fini “aziendali”, saper stare al posto mio, lasciare i problemi a casa, parlare al momento oppurtuno.
Io lavoro gratis.
E assisto ad un sacco di ingiustizie ogni giorno.
“Ma mica puoi dire la tua, perdendo lo status di ragazzina tanto carina, tanto simpatica, estroversa e amica di tutti. ^_^ ”
(estiqaatsi?)
Io lavoro gratis.
Poi torno a casa e studio, ma per l’università non rientro nella categoria studente-lavoratore.
Io lavoro gratis.
E la sera prima di andare a dormire provo tanta vergogna per i miei sogni così puri in un mondo così irrispettoso.
Io lavoro gratis.
Ogni tanto mi pagano, eh!
Ma non è specificato quando. Nel frattempo quasi quasi m’indebito.
Io lavoro gratis.
E poi ci sono i contentini:
un rimborso spese,
un’esperienza saltuaria,
un lavoro a chiamata
che ti fanno sentire un dio solo perché per una sera puoi pagarti una pizza, senza elemosinare una cinque euro dai genitori o uscire giammangiato.
Io lavoro gratis.
E la sproporzione tra quello che spendo per formarmi e il rispetto che ottengo in cambio è di dimensioni cosmiche.
Io lavoro gratis.
E chi lavora già abbastanza, ottiene ulteriori opportunità.
Ma la mia è solo invidia, certo.
Io lavoro gratis.
E mi dicono che sul curriculum vitae vanno citate solo le esperienze più significative e retribuite. E allora vai con quattro pagine di competenze organizzative, comunicative, informatiche e metti pure che sai rammendare i calzini, non si sa mai.
Io lavoro gratis.
E mia nonna non mi chiede più se ho un fidanzato.
Lei – “Ma tu c cos vuè fa? Cioè, dopo la laurea che diventi? C cos ja disc a l’ cristian, c’ m chied’n c fasc mia nipot?”
Io – “La nò, dì che faccio l’attrice!”
Lei – “Ah, stev iun che facev stu mestir. Vendev le banan alla chiazz, po’ ha passat u concors per la Suddest.”
Io lavoro gratis.
E sarebbe bello denunciarvi tutti per commercio illegale di speranze e continui attacchi terroristici alla parola futuro.
E sarebbe bello denunciarvi per..
E sarebbe bello denunciarvi.
Io lavoro gratis, ma sto cercando di smettere.
E senza la sigaretta elettronica.
“Quando arriveremo a goderci la nostra pensione, ci sorprenderemo a domandarci chi sia stato più coglione.”
Spesso il male di vivere ho incontrato pure io.
Era negli essendo che
nei lamenti continui
negli ego smisurati
nei fatti sentire
nell’aria viziata di una stanza stretta
e nei mal di testa che non vi sto a dire,
nei cassetti mai aperti
nelle sigarette elettroniche
nelle macchie non identificate sulle lenzuola
nell’odore di ruggine degli intercity notte
nelle rime baciate di d’agostino-d’alessio
ma anche quelle di nek e biagio antonacci non scherzano
in tutte le puntate di Colorado
nella burocrazia
nelle pì, nelle dì, nelle elle, nelle stelle
e in Capezzone
che ti tira le mazzate dalle mani
a prescindere
nelle zanzare
negli anni di catechismo
che non son riusciti ad insegnarmi
come voler bene proprio a tutti,
zanzare comprese,
anche se Noè non le fa salire sulla sua arca
e questa cosa ci redime tutti
nella formazione a pagamento
per far volontariato
negli stage a tempo indeterminato
nei tagli al personale
nei primi maggi
sotto il sole
ma pallidi
come le buste di licenziamento
le morti continue
la parola: precario
e quel diritto
in ottimo stato di putrefazione.
Forse non tutti sanno che
anche il bene di vivere ho incontrato,
porta un sorriso salvifico sempre appresso,
la sua voce raggiunge il traffico,
colora la città,
con lei
la effe e la emme risollevano le sorti di tutto l’alfabeto.
Tra le idi di quel marzo
lei ha messo insieme i cocci della mia ordinaria scemenza
rendendola allegria smisurata
e voglia di vivere
a tutte le ore del giorno.
Lei, sì, sempre-rigorosamente-lei,
è inciampata nelle mie paure
trasformandole in professione,
ha riso con me della mia dislessia
al quindicinquesimo del primo tempo
e la mia ansia è diventata esperienza,
mi ha lanciato nel vuoto
di una spugnetta nera,
insegnandomi che
non è vero proprio per niente che è facile fare la radio.
Ogni giorno ringrazio il cielo di averla incontrata
e quando la migliore collega di lavoro
che si possa mai desiderare
prepara il suo scatolone
portando con sé verso nuove frequenze
cinquecentosessantacinque mattine
le facce di Emiliano
Mario Mario
e la salsadisoià
mi tira fuori tutte le lacrime che in cielo stanno.
Lo sappiamo però che sta musciaria fa male al rè
al ricco e al cardinale
e quindi questa poesia
alla guidocatalano
ma con molta barba in meno
che mi accingo a concludere
troverà il suo lieto fine
anche perché
se non me l’avesse insegnato lei
con la sua tutina da supereroe
a restare ogni giorno sintonizzata col sorriso
tutto questo male di vivere mi peserebbe